Tutte le mie esperienze e avventure sono impresse così profondamente nella mia memoria che non le dimenticherò mai. Anche gli altri partecipanti, che tra l’altro hanno tutti raggiunto il traguardo, mi sono entrati nel cuore quanto lo staff degli organizzatori. Siete diventati per me amici e come una famiglia, sempre calorosamente pronta ad accogliermi.
Everest Trail Race – Un’avventura di corsa d’eccezione
Dopo un viaggio di un giorno e mezzo intorno al mondo, arrivo a Kathmandu, in Nepal. Qui incontro per la prima volta i 33 partecipanti all’undicesima edizione dell’Everest Trail Race. Un gruppo esclusivo di corridori provenienti da diverse parti del mondo, segnati dall’esperienza e dalla determinazione, riflette queste qualità nei loro volti. Queste caratteristiche saranno indispensabili nei giorni a venire, perché questa gara è senza dubbio una delle più impegnative al mondo.
Poiché la sera sta già calando e fa molto vento e freddo, mi infilo nella nostra tenda, il cui unico comfort è un materasso stretto. Stendo il mio sacco a pelo in piuma per riscaldarmi e inizio, alla luce della mia lampada frontale Petzl, a sistemare con cura le cose che ho meticolosamente preparato per settimane, ordinandole secondo priorità.
È importante sapere che dalla sera prima della partenza per il luogo di inizio gara, né l’attrezzatura né l’abbigliamento possono essere aggiunti o tolti. Tutto è stato registrato durante il controllo del materiale e sarà controllato regolarmente. Spero solo di avere abbastanza vestiti caldi, perché già sento freddo. Ho risparmiato parecchio su questo aspetto, concentrandomi più sulla performance che sul comfort. Nonostante tutta la prudenza, lo spirito agonistico ha avuto la meglio e non ho davvero portato molti vestiti caldi.
Sentendomi così freddo, decido di andare nella tenda comune per riscaldarmi e conoscere nuovi partecipanti. Entro e sono felice di vedere che c’è del tè caldo. La tazza bollente nelle mani fredde è un sollievo e anche altri corridori hanno avuto la stessa idea. Qui dentro non fa molto caldo, ma le conversazioni interessanti e il tè distraggono dal freddo.
Con soli 170 chilometri suddivisi in sei tappe, inizialmente non sembra troppo impressionante. Ma se si considera l’incredibile dislivello totale di 26.000 metri in salita e discesa, ci si chiede come sia possibile affrontarlo. E se aggiungo che tutto ciò avviene a un’altitudine media di circa 3.000 metri sul livello del mare, con la vista dei maestosi picchi delle montagne più alte del mondo, anche a voi mancherà il fiato come è successo a me.
Il punto più alto, il Pikey Peak a 4.097 metri, rappresenta una sfida seria, così come le notti trascorse in tenda a temperature sotto lo zero.
Per prima cosa, voglio condividere alcuni dettagli sul percorso della gara, così da farvi avere un’idea delle difficoltà di un’impresa simile. La competizione si svolge nella regione del Solukhumbu, nota per la sua bellezza naturale e molto popolare per i trekking. A livello mondiale, però, è famosa soprattutto per il percorso attraverso l’Himalaya, che conduce al monte più alto del mondo, l’Everest. I partecipanti devono attraversare questo parco nazionale per raggiungere la meta.
Normalmente si vola dopo 4-5 ore di autobus da Kathmandu all’aeroporto di Manthali e poi in 20 minuti a Lukla per arrivare in questa zona. Noi, invece, scegliamo un percorso diverso e, dopo 9 ore di viaggio su strade sterrate e irregolari, veniamo portati in un luogo a noi sconosciuto.
Sì, sconosciuto! Avete capito bene. Anche questa è una delle caratteristiche peculiari della gara. Fino alla sera prima della partenza non ci sono informazioni sul percorso, né tantomeno un file GPX da consultare in anticipo. Questo rende la sfida ancora più ardua.
Ricordo ancora bene il volto dell’autista locale che ci ha lasciati nel nulla, a 2.964 metri di altitudine, in un piccolo campo tendato. Si appoggiava al suo colorato autobus, finiva la sigaretta, rise brevemente, salì sul mezzo e partì sollevando una nuvola di polvere. In quel momento mi sono sentito come un cane abbandonato.
Con tutti i miei effetti personali e l’attrezzatura obbligatoria, che a malapena entra nello zaino da corsa minuscolo, sto in fila per essere assegnato a una tenda doppia. Le tende sono talvolta divise per nazionalità, altre volte miste: una combinazione interessante, a mio avviso. Il mio compagno di tenda è meno esotico: viene dal mio stesso Paese, l’Italia. Per non confondervi: vengo dall’Alto Adige, che è prevalentemente di lingua tedesca e vicino al confine austriaco, ma appartiene all’Italia. Andrea F., questo è il nome del mio compagno di tenda, condividerà con me gioie e dolori nei prossimi giorni.
La città di tende è composta dalle tende doppie dei partecipanti, da due tende verticali con un buco per i bisogni urgenti, da una tenda comune destinata principalmente ai pasti e dalle tende dell’organizzazione. L’accesso a queste ultime è vietato, se non per emergenze mediche.
Solo quando tutti i partecipanti si sono seduti al lungo tavolo comune per il pasto (perché in piedi non si può davvero stare) si è percepito un po’ di calore, e ho potuto almeno togliere il cappello. La giacca pesante l’ho lasciata addosso. L’atmosfera si è fatta vivace, perché la maggior parte dei partecipanti proveniva dalla Spagna e superava persino noi italiani in termini di volume vocale. I parlanti tedeschi, invece, questa volta non erano presenti, ma potrete sistemarlo la prossima volta!
Il cibo veniva servito su grandi piatti di ferro all’ingresso della lunga tenda e, poiché nessuno poteva raggiungere il fondo, i piatti venivano semplicemente passati avanti e indietro. Ogni partecipante lo passava al vicino. Si percepiva un senso di comunità, poiché tutti condividevano un bene prezioso. Nel corso dei giorni saremmo diventati come una grande famiglia, anche se durante il giorno ci saremmo sfidati l’un l’altro in gara.
Inizia la gara: dopo una notte fredda e insonne, durante la quale il corpo si è dovuto adattare rapidamente all’altitudine e mi ha mandato in bagno ogni mezz’ora circa, alle 6 del mattino ci ha svegliati un vigoroso richiamo in stile nepalese. Con nostra gioia ci è stato servito del tè caldo nella tenda e la fredda mattina gelida si è così illuminata un po’. Ho lanciato uno sguardo verso il mio compagno di tenda e l’entusiasmo sfrenato appariva decisamente diverso.
Comunque, uno sguardo attraverso l’apertura della tenda prometteva una giornata grandiosa e soleggiata. Dopo una colazione abbondante, che purtroppo non ho potuto gustare appieno a causa della gara imminente, e una toilette mattutina spartana, ho deciso di salire sulla collina adiacente per scattare alcune prime foto del massiccio dell’Everest. Era solo una collina piccola, ma una volta in cima ero già completamente senza fiato e ho avuto un ulteriore assaggio dell’altitudine e delle fatiche che ci aspettavano durante la gara.
È stato dato il via: un colpo di pistola, e si è partiti. Era chiaro fin dall’inizio che questa gara avrebbe avuto un percorso particolare. Un’occhiata al roadbook lo aveva confermato. Ma, a prescindere dall’itinerario delle sei tappe, ogni volta non potevo fare a meno di scuotere incredulo la testa davanti al tracciato incredibile previsto per il giorno successivo. Come sarebbe stato possibile affrontarlo, se già una piccola collina mi aveva tolto il fiato?
All’inizio seguiva subito una discesa veloce e tecnicamente impegnativa, e trovare il percorso non era facile. Ho perso di vista per un attimo il gruppo di testa e, zac, mi sono perso. Era chiaro che seguire il tracciato senza l’abituale supporto digitale non sarebbe stato semplice, ma nei giorni successivi non ero l’unico a smarrirsi. Purtroppo mi è successo più volte, nonostante prestassi maggiore attenzione, anche se bastava guardare un po’ più da vicino. La concentrazione non è sempre quella che si vorrebbe avere.
La prima tappa, con la rincorsa per recuperare posizioni, mi ha già richiesto molto, e sembravo sul punto di crollare durante l’ultimo dislivello di 1000 metri fino a 3490 metri di quota. Dal punto di vista paesaggistico non riuscivo ancora a godermi del tutto il panorama, ma l’arrivo davanti a un 4000 metri, previsto per il giorno successivo, era già imponente.
Per celebrare l’occasione c’era acqua calda, un bene prezioso qui, visto che mancava anche la corrente elettrica. Purtroppo il sole era nascosto dalle nuvole, e la temperatura scendeva già verso lo zero o sotto. Così non riuscivo a godermi del tutto l’acqua calda da una brocca senza essere shockato dal vento gelido. Una situazione davvero strana, perché durante il giorno, quando il sole splende, le temperature sono piacevoli, tra i 15 e i 20 gradi. Solo quando una nuvola copre il sole diventa rapidamente freddo. Bisognava calcolare con precisione quando lavare i vestiti, affinché si asciugassero in tempo. Purtroppo quel giorno non lo sapevo ancora, e così i miei vestiti da gara, beh… si sono praticamente congelati. Sfortuna, direi, visto che non avevo un secondo set con me.
La seconda notte è stata davvero dura. Cavolo, quanto faceva freddo. Ho dovuto usare la mia giacca piumino come scaldapiedi improvvisato e, comunque, riuscivo a trovare poco riposo. Mi sono sistemato il più comodamente possibile e mi sono preparato mentalmente all’assalto della vetta del Pikey Peak, il punto più alto della gara.
La mattina seguente, ancora prima dell’alba, cercai di uscire dalla tenda e, alla luce della mia lampada frontale, vidi che l’interno della tenda scintillava. Era ghiaccio, formato dalla condensa del nostro respiro. Picchiettai sulla cerniera per cercare di allentarla, ma la tenda era completamente ghiacciata sia all’interno che all’esterno. Dopo vani tentativi di scongelare i miei vestiti da corsa, li indossai – un po’ surreale nel mio stato di stanchezza – e mi feci strada fuori dalla tenda.
L’alba fu quindi l’esperienza più commovente e splendida che abbia mai vissuto. Il sole tingeva di luce dorata il terreno, ricoperto di cristalli di ghiaccio, ricompensando le fatiche affrontate fino a quel momento. Questa meravigliosa immagine dell’alba mi ha accompagnato anche nei giorni successivi della gara.
L’assalto alla vetta si rivelò brutale, superando qualsiasi esperienza di ultra running che avessi accumulato fino a quel momento. La ripida salita a 4000 metri di quota e l’aria rarefatta mi mettevano a dura prova, e sentivo giramenti di testa, costringendomi a rallentare per non rischiare di cadere.
L’arrivo in vetta, con le sue colorate bandiere di preghiera e la vista mozzafiato a 360 gradi su tutte le alte vette dell’Himalaya, ha reso la salita un’esperienza davvero speciale.
Durante il prosieguo della gara ho avuto l’opportunità di scoprire il mondo dei nepalesi e sono rimasto affascinato dal loro stile di vita semplice, dai rituali religiosi e dalla loro fede.
Per non entrare nei dettagli di ciascuna delle sei tappe, ve lo racconto così: il mio motto preferito durante il briefing quotidiano era: «Attenzione, questa tappa è molto più difficile rispetto alle altre». Ogni giorno ero al limite, completamente esausto, e non riuscivo a immaginare che potesse diventare ancora più difficile – ma lo era, senza dubbio.
Le condizioni più dure impongono anche le massime esigenze all’attrezzatura. Per me, solo il meglio era accettabile. Grazie alle mie scarpe preferite di Joe Nimble e alla perfetta combinazione con i calzini compressivi Bauerfeind, i miei piedi erano al sicuro e non ho avuto problemi. L’abbigliamento Skinfit, già di altissima qualità, ha soddisfatto ampiamente le mie esigenze da atleta.
La domanda sui bastoncini: sì o no? Assolutamente sì! Senza i miei bastoncini pieghevoli Komperdell sarei stato perduto. Li uso volentieri nelle gare ultra-montagna e in precedenza su distanze più brevi, come i 25 km, non li avevo praticamente mai. Ma qui nessuno voleva rinunciare ai propri bastoncini, neanche i nepalesi.
Inoltre, continuavo a soffrire di insonnia e il mal di montagna si manifestava con un crescente mal di gola secco. Nonostante la possibilità di riposare un po’ nel pomeriggio al sole, la fatica mi metteva anche psicologicamente al limite. Era sempre una gioia e un incoraggiamento ricevere una volta al giorno le e-mail stampate da casa e dagli amici inviate dall’organizzatore. Altri contatti con il mondo esterno non esistevano.
Un paragrafo a parte merita il cibo, preparato con cura dagli abitanti locali. Normalmente il cibo è molto piccante, ma per noi è stato leggermente addolcito. Un po’ particolare era però la quantità d’aglio usata nei piatti. Nella famosa zuppa nepalesa all’aglio, che tra l’altro è un rimedio segreto contro i sintomi del mal di montagna, ci vanno almeno cinque spicchi d’aglio per porzione. Niente paura: dopo due o tre giorni non lo senti più addosso. Io ho trovato la zuppa semplicemente fantastica e la preparerò anche a casa allo stesso modo.
Avvicinandosi progressivamente agli avamposti di Namche Bazar e al traguardo di Lukla, il traffico di portatori e muli aumentava costantemente. Se poi questi incontri avvengono su uno dei tanti ponti sospesi stretti e instabili, come il New Hillary Bridge a circa 70 metri d’altezza, occorrono pazienza, nervi saldi e abilità nell’equilibrio. Poiché per me l’obiettivo era lottare per le posizioni di vertice, ho scelto la via dell’impazienza, accettando qualche livido causato dalle bombole del gas.
La particolarità dell’Everest Trail Race è la seguente: non importa quanto tu sia stanco o esausto, la curiosità di scoprire cosa succederà dopo o quali viste incredibili ti attendono prevale sempre e alimenta il tuo spirito avventuroso. Non si è mai trattato di non uscire ogni mattina dalla tenda o di arrendersi.
Beh, va detto, forse mi sono trovato una volta o anche più volte sull’orlo di mollare, ma dove altro potresti andare qui? Non puoi semplicemente fermarti e aspettare il furgone scopa che ti riporti comodamente indietro. In questa zona non ci sono strade né automobili. Al massimo premi il pulsante d’emergenza del tuo GPS, e per 500 dollari (i dati della carta di credito vanno forniti in anticipo) un elicottero ti porterà direttamente a Kathmandu, oppure metti in movimento il tuo viziato sedere europeo da solo.
Dopo sei giorni e cinque notti insonni, era finalmente arrivato il momento. La civiltà mi voleva di nuovo tra le sue braccia, e si poteva già sentire e vedere il traffico aereo del temuto aeroporto di Lukla. Per chi non lo sapesse: questo aeroporto, con la sua pista lunga appena 527 metri e la sua posizione estrema, che non consente alcuna interruzione di decollo o atterraggio, è considerato uno dei più pericolosi al mondo. Proprio con uno di questi piccoli aerei sarei stato catapultato il giorno successivo di ritorno a Kathmandu. Santo cielo, aiutami tu.
Ma prima, bisognava cercare il traguardo. Molte cose mi passavano per la mente, ciò che era davanti, sotto e dietro di me. Incredibile, pensai. Tante preparazioni e ore di allenamento, due anni di pianificazione e sacrifici, e ora tutto questo stava per concludersi in uno dei luoghi più remoti del pianeta. Non riuscivo ancora a realizzarlo, quando una telecamera mi tirò fuori dalla mia bolla e mi annunciò il traguardo.
Una gioia travolgente, un orgoglio indescrivibile e un po’ di nostalgia per il fatto che fosse già finita mi sommergevano, e attraversai il nastro del traguardo con le braccia alzate. Il quinto posto avrebbe compensato tutti gli sforzi e mi portò tra le braccia del capo dell’organizzazione, Jordi, che mi espresso il suo riconoscimento e le congratulazioni, mi abbracciò e mi strinse. Come segno di deferenza, mi porse una sciarpa di benvenuto in seta bianca, una Katha.
Nepal, ci vediamo di nuovo!!!
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Autor: Lord Jens Kramer
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Blog: lordjenskramer.com
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